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barbaro

Sono circondato da agnostici. Se c’è qualcosa di più fastidioso dei credenti, sono proprio gli agnostici. In mezzo, come fosse un purgatorio senza fine, ci sono gli atei. Non perché sia un conservatore, concettualmente condivido quasi tutto degli atei, ma manca quel pezzetto che me li rende lontani, distanti. I credenti li trovo animaleschi, alcuni sono pericolosi, altri meno. Chiaro, le tigri sono molto belle, ma fanno male. Meglio un credente tapiro, sono magnifici da osservare mentre con la linguetta tirano su formichine inconsapevoli, che dolcezza, o con le dita sfogliano gli a4 lucidi, stampati e ripiegati, per uso e consumo chiesarolo. Gli atei sono uomini e donne, nella loro sincera nudità morale, applausi per il coraggio ma comunque abbastanza che schifo.

Quello che a volte mi preoccupa, a parte la mia incapacità di punteggiatura e, in senso molto stretto, l’ansia da scrittore mai espresso, è l’assenza di significato. Il senso, non il buonsenso, il senso profondo e naturale degli oggetti e degli eventi. Per pochi tutto sostanzia dio, avete capito? Forse no, nemmeno io, ma perché sforzarmi? Nemmeno i credenti sanno cosa si intenda per “sostanziare”, divinamente almeno. Quindi leggetevi tutta la bibbia, per scrupolo, prima di poter dire che, a prescindere dal vostro livello di greco antico o latino, gli indizi sono davvero pochi, esistere è un’attitudine immotivata.

La maggior parte, per questo motivo, si ritrova mussulmana o cattolica e ripiega subito sul quieto vivere. Sticazzi insomma.
Sono italiano, faccio parte della squadra per una questione di etichetta, eppure questo patteggiamento non mi entusiasma, se dovessi rivelarmi anche io in forma animale, come tutti i credenti, probabilmente apparirei per protesta come un grosso dinosauro incazzato, ma erbivoro e stupibondo.

Ma poi, di che parliamo? Di questo senso, quel senso che a volte si ha la sensazione di cogliere, solitamente in condizioni spiacevoli e fisicamente sfibranti. Il senso, quello che si palesa come una stretta allo sterno, un impeto di pensieri tradotto in una bestemmia a denti stretti, un’imprecazione o un insulto, come se si rifiutasse di essere espresso in ordine civile, impossibile da mettere nero su bianco una volta per tutte.

Questa assenza a volte mi preoccupa, soprattutto per l’ambiente in cui vivo. Mi preoccupa, in senso generale, la mia ragazza, i miei amici, i miei parenti, gli sconosciuti. Si interrogano in silenzio? Se ne fottono? Non capisco bene. Al pragmatismo, che non credo proprio sia frutto della modernità o della tecnologia, si oppone una domanda lampante a cui tutti sbattono le spalluce sperando solo nel prossimo aperitivo. Ma la domanda è sempre lì: perché?

Non è un gioco puerile, non è un paradosso o un trabocchetto. Non sono giri di parole, quando qualcosa non va, nel senso qualcosa di veramente importante del tipo “facciamo un figlio?”, “sposiamoci” o così via, tra le mie orecchie fischia una specie di ping pong se rimane senza risposte: perché?

L’amore. L’amore è la risposta di tutto, ci provo.
In pratica c’è chi si tira una sega, chi scopa una volta a settimana, chi si droga, chi si da all’alcool, chi aspetta, chi simula.
Io, di grazia, son fortunato. Faccio tutto, scopo, mi tiro le seghe, mi drogo e bevo.
Manca la convinzione, ma questi sono gli argomenti.

11.52

Mi sono alzato presto, ho pensato oggi farò molte cose. Solita oretta e forse più sui social, senza tra l’altro comunicare con anima viva, scrollando cose di cui non mi interessa nulla. Ho pensato a questo punto meglio se mi faccio una partita. Ho perso altri 40 minuti con un vecchio strategico a turni. Non so perché, rifaccio la stessa partita da una settimana.

Alle 9.30 ho deciso di passare lo straccio a terra e poi, preso da rimorso, sono andato in biblioteca. La prima ora l’ho consumata studiando il sistema del wifi della biblioteca nazionale di Cosenza, arrivando alla conclusione che non funziona. Ho fatto due chiacchiere con un impiegato, uno della legione che vaga per tutta la struttura. In sala lettura ci sono io e un’altra ragazza. Un rapporto efficientissimo di 1 lettore ogni 15 custodi, minimo.

Riprendo un file di excel con pivot table, ci gioco da qualche giorno, ora non funziona più nulla. Non funziona, devo rifare tutto daccapo, perdo venti minuti e mi chiedo perché lo sto facendo, chi me lo chiede? Mi sale l’acidità di stomaco, forse anche per gli antidolorifici presi al volo stamattina.

Cosa mi sono dimenticato?

Entro sul blog, ci sono 9 pezzi lasciati in bozza. Mi disturba, chiudo il pc. Leggo due pagine di La Capria, mi piace, ma l’insofferenza mi rende incapace di continuare. Il cellulare squilla, devo andare in Comune per firmare un contratto di collaborazione, chiedo se posso andare il pomeriggio, sì non c’è problema fino alle 18.
Ricomincio a girarmi i pollici, ricevo una email di lavoro. Riaccendo il pc, lavoro 20-30 minuti, ne perdo altri 60 sugli a-social. Mi viene fame, prendo un pacchetto di taralli da 40g e leggo il giornale, solo i titoli. Cazzo che paese di merda, analfabeti, incazzati, noiosi, senza un briciolo di cultura, c’è rimasto solo da bere.

Sono le 13.45, torno a casa per pranzo. Arrivo che la mia compagna ha già cucinato e apparecchiato, è tornata da lezione, insegna matematica. Nonostante tutto le piace, lo so perché quando è felice si capisce, è la sua dote migliore. Di me si capisce solo quando sono scazzato. Pranzo, chiacchieriamo un pò, lavo i piatti, decido di andare in Comune per firmare il contratto di collaborazione e poi passare alla Feltrinelli per cambiare un regalo.

Arrivo in Comune, è chiuso. Sono le 15.30, apre alle 16. Chiamo, posso entrare?
Sì, vengo ad aprire. Aspetto 15 minuti che qualcuno apra la porta antincendio. Corridoi, corridoi, intanto mi arriva un’altra email di lavoro, corridoi, mi fa da guida un impiegato obeso. Arrivo, mi siedo, scandisce il mio cognome (mi emoziono sempre quando sento chiamarmi per cognome) dico sì sì, firmo senza leggere, saluto alla maniera borbonica, arrivederci, buona serata, buona giornata, a presto e me ne vado.

Fuori fa caldo, si schiuma leggermente, come piace a me. Da quanto sono tornato in Italia la mia genetica ha deviato. Ora provo piacere solo nei climi caldi e umidicci, 31-32 gradi con un filo di afa, insomma l’ideale per una blatta.

Entro alla Feltrinelli per cambiare un’agenda che mi ha regalato V. ma che non mi ispira molto. In realtà, non ho mai avuto agende, solo moleskine che uso di tanto in tanto scrivendo elenchi di cose che devo fare, qualche schizzo, appunti. Le ragazze mi hanno sempre regalato moleskine, ma ho passato i 30, quindi adesso un’agenda tra l’altro di 18 mesi. Sbircio qua e là, vorrei prendere un libro per origami ma poi penso che sarebbe fuori luogo. Trovo un’agenda francese da 12 mesi che parte da agosto, decido che va bene. Costa di meno del regalo, aggiungo un numero di Linus ma alla cassa scopro che non si può, il cambio vale solo per cartoleria. Dentro di me penso che rompicoglioni, invece sorrido e dico ok, ci mancherebbe, si figuri. Prendo un quadernino e una penna, dentro di me risuona più volte fanculo alla feltrinelli, fanculo alle librerie, fanculo all’iva, mi avete stancato tutti.

Torno a casa, saluto, esco di nuovo per la biblioteca. Rientro in sala lettura, è molto grande, larga 6-7 metri e lunga una ventina. Mi siedo appena entrato sulla destra, perché c’è la presa elettrica per il computer portatile, sono sotto lo scaffale delle tesi. Fa caldissimo, la ragazza di fronte a me ha chiuso la finestra, è addirittura un pò buio. Non resisto più di un paio di minuti, mi alzo e mi sposto verso la fine della sala dove ci sono due finestra, c’è un leggero venticello, a un tavolo di distanza c’è un vecchio in crocs che legge i giornali. Li legge tutti, uno dopo l’altro, sono una dozzina di quotidiani.
Mi raggiunge V. chiacchiera due minuti con un altro custode qualsiasi e la invitano a fare un giro della biblioteca. Dicesi, potere della figa, vengo però coinvolto anche io. Tanto non stavo combinando nulla di che, quindi mi unisco alla comitiva. Giriamo qualche stanza, due restauratrici lavorano su un’arpa antica, arriviamo all’ultimo piano, un ufficio con bagno privato, divanetto, il rifugio perfetto per un 70enne asociale librofilo. Dalla finestra il panorama sulla città vecchia è molto bello, chiacchieriamo di urbanistica, dei nomi dei quartieri, l’impiegato mi indica dove sono stati fucilati i fratelli bandiera, ancora ci sono le schegge dei proiettili sui muri. Mi riprometto di passare a vedere il posto. Riconsegno tesserino e chiave dell’armadietto, ogni volta una procedura penosa, noiosa, usciamo dalla biblioteca e andiamo al bar di fronte il Duomo. V. prende una doppio malto, io una ichnusa, che non mi fa impazzire, ma il demone della doppio malto la tengo da parte. Mi arriva una chiamata, il capetto del comitato di quartiere, che sbraita scemenze. A quanto pare ho fatto salire un operaio a vedere il tetto di casa a insaputa di una inquilina del palazzo dove vivo e quindi lei a sua volta ha chiamato un suo operaio che giura che la sua parte di tetto è completamente intatta e quindi non pagherà i lavori. Le dico che per me va bene, non pagasse. Non mi interessa proprio che paghi o meno, non sono mica l’amministratore.
Torno al tavolo da V. che mi dice di stare tranquillo, non innervosirmi, purtroppo per quanto provi a volte simpatia per i cafoni e le cafone, ho una resistenza limitata alla loro vicinanza, soprattutto quando provano a fare i furbi per due spicci. Ma insomma, prendo un’altra birra e provo a non pensarci. Anche perché ho un dubbio molto più insidioso che non riesco a risolvere.

Cosa ho dimenticato?

Torniamo a casa, mi accendo una sigaretta sul balcone, mi gira la testa, non sono un grande fumatore da un annetto ormai. Il fiume scorre a pochi metri, una decina più o meno, l’acqua è torbida. Probabilmente ha piovuto nella zona della pre Sila, portando giù i detriti dalla montagna, il Crati s’inscurisce. Mi immagino di salire in equilibrio sulla ringhiera e saltare, prendendo la strada di petto. Mi aprirei come un pollo alla diavola sull’asfalto? In che condizioni risulterebbe il cranio? Accendo un’altra sigaretta e il capo ora mi gira di meno, l’assuefazione è un gioco così semplice. Riguardo l’asfalto, passa una macchina, poi un breve silenzio, poi un’altra ancora, un pullman. A volte davvero non basta vedere le persone intorno a te felici, o più o meno serene, non basta nemmeno l’equilibrio, non basta nulla. Rientro in casa, apro l’agenda senza guardare il giorno e scrivo: Prenditi un cane (pigro)

Dopo cena, non riesco a prendere sonno, invece V. va tranquillamente. Aspetto un’ora, un’ora e mezza, sento il suo calore, il respiro, provo a sincronizzarmi e assopirmi, ma non funziona. Non dormo, ma va bene lo stesso.

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Ore 13

<Cosa vuoi?>

<La pace nel mondo>

<Sto andando al bar, non all’Onu>

<Allora un ghiacciolo alla menta>

Quantomeno

Roma

Che fosse un sogno, mi è stato chiaro dal primo istante.
Per la luce, i colori, i suoni. Tutto reale, tutto rielaborato, digerito, vomitato da un cervello pulsante, drogato, sofferente.
Eravamo in macchina, io e mia zia, lei stranamente calma e per nulla inquieta, come invece è sempre stata per anni, sconvolgendo conversazioni e riunioni di famiglia.
Non parliamo, lei guida e va sempre dritta su una strada di dimensioni mai viste. Otto, dieci, dodici corsie per senso di marcia, una gigantesca lingua di asfalto che taglia una campagna estiva di cui sento l’odore, i suoni, il canto dei grilli.
La mia camera di decompressione.
<Attenta, è rosso>
Non sono spaventato, ripeto al frase due o tre volte, meccanicamente. Mia zia tira dritto e attraversa la strada, ci sono altre macchina che fanno lo stesso, le carreggiate sono così grandi, l’incrocio sembra un lago d’asfalto, noi puntiamo al centro e poi proseguiamo, nessuno ci ferma o suona.
Attraversiamo un acquedotto romano, di proporzioni mai viste, proporzionali alle autostrade che tagliano sotto gli archi. Passata la volte, con un’ombra che si allunga pacifica e impressionante, alzo lo sguardo e vedo una città con edifici di dimensioni spaventose. All’inizio le sagome sono confuse, poi si delineano con chiarezza gli spigoli, le altezze, le forme inquietanti. Non sono forme aliene, ma conosciute, grattacieli di granito color sabbia, emana un calore travolgente, profondo.
<Non è possibile, non esiste. Lo sapevo fin dall’inizio, è solo un sogno>
Ancora una volta mia zia non risponde, è sorridente, rilassata, come se portasse il cane al mare.

Valutato

​Valutato un fatto, se c’è un rischio minimo che qualcosa vada storto, andrà storto.

Dunque beata l’ignoranza è un corollario della legge di Murphy, oppure il contrario?

Wild Nights

<Buonasera>

<Buonasera>

<Posso invitarla nel nostro strip club?>

C’è ancora luce, siamo all’imbrunire, porto il passamontagna e una busta di plastica minuscola, di quelle impossibili da riutilizzare, una bustina della farmacia. Lei non ha nemmeno notato il mio volto, emaciato, la barba troppo folta, o forse sì ma che importa?
E io, preso in flagrante, impreparato, mi scuso.

<Mi spiace, ma sono malato>

Le mostro il sacchetto da cui fanno capolino una dozzina di scatolette di carta plastificata, con nomi appariscenti, alcuni ridondanti, come l’apap. Apap, che poi sarebbe la tachipirina.
Lei rimane per un millesimo di secondo esterrefatta, o almeno è quello che mi immagino, mi illudo. Meccanicamente muove le labbra, la lingua, emette suoni automatici.

<Entrata gratuita! Beva con noi una birra, ci sono un sacco di belle ragazze>

<Ma io non mi sento mica bene>

<Entra dai! Solo un giro!>

Non so più cosa dire, forse proprio perché è il classico caso in cui non c’è proprio nulla da aggiungere. Limpido, dovrei tirar dritto, andar via, tagliare il monologo, la connessione. Strano che invece non aggiungo altra demenza senile al colloquio, semplicemente mi assopisco in uno stato confusionale, sono all’angolo.
Mi vedo al bancone, con una Lech free, circondato da foglietti con le istruzioni, tra un integratore di vitamina D3, un antibiotico a gocce per l’otite cronica, la propoli, vitamina C, vix in polvere, uno sciroppo lenitivo per la gola che sa di uva, tremendo. Non ci sono i fermenti lattici vivi, me li sono dimenticati.
Raccolgo ricette, consigli, insinuazioni, prendo tutto.
La morte è bene, lo dice anche il Talmud, però sempre domani. Io, il bancone, il barista che è un armadio con due braccia che potrebbero spezzarmi la schiena in pochi secondi. Tra me e lui, soltanto dolori muscolari cronici.
Intanto gambe che svolazzano, reggicalze, reggiseni, mutandine, io con un torcicollo diabolico che provo a decifrare le controindicazioni.

La ragazza cambia obiettivo, un gruppo di ragazzi rasati, palestrati, rigorosamente in bomberino.
Se ne va e io rimango con il mio sacchetto.

Immagine

Corporation’s life

Bob

Un uomo corre verso il tram, tutto fresco e luccicante, che aspetta i 4 sfigati del momento.
È uguale a Bob Polsen, non solo ciccione, ma con le tette da donna grassa e flaccida. Riesce ad arrivare in tempo, ad anticiparlo una 60enne dal passetto corto e veloce che gli tiene aperta la porta.

Il tram riparte e si aggiunge all’ultimo un barbone, anche lui panzone, con una barba (ma dai) bianca, foltissima, lunga, biblica. Ma la porta è già bloccata, non si apre, lui appena se ne accorge alza un braccio e inveisce, ma piano piano, apre la bocca ma è muto. È a rallentatore, vedo la mano scendere e risalire, ogni movimento prende almeno 2/3 secondi. Chissà come è vivere ad un ritmo del genere. Chissà come è scopare così.

Io intanto mando un selfie a mio padre, l’unico come me sveglio alle 4.30 e mi risponde che non gli sembro esattamente in forma.
Salgo sul bus e per due fermate di fila mi sbattono in faccia la pubblicità di Bridget Jones 3. Una quarantenne repressa che nessuno le ha detto che i due tipi se li può anche fare contemporaneamente, senza moine e senza nemmeno raccontarcelo al cinema.
Siamo nel 2016, quante storie.

Tram, la necessità di scriverlo

Sono in tram, da 10 minuti. Poco fa è entrato il barbone più puzzolente che abbia mai sentito in vita mia.
Cina, India, Stati Uniti, Roma di notte…mai sentita una cosa simile.
Sono a 2 metri, tutti scappano, io aspetto le ultime due fermate, senza parole, basito.